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Avishai Cohen LIVE@Speech – Auditorium Roma

Erano quasi dieci anni che Avishai Cohen non calcava un palco capitolino. E se l’ultima volta, nel lontano dicembre del 2003, si presentò alla Palma in trio, per “Speech”, il 27 ottobre, si è portato dietro un eccezionale quintetto: oboe, violino, due viole e violoncello. La sala, gremita, nonostante, il contrabbassista israeliano non abbia ancora un nome altisonante. Molti giovani in sala, l’età media non è assai alta. Un buon segno, questo, che fa ben sperare sui gusti musicali delle generazioni future. Si, perchè seppure le composizioni di Avishai Cohen affascinano, ammaliano, restano pur sempre molto complesse sia dal punto di vista delle strutture, delle armonie ma soprattutto dei tempi. Tra i brani, non ne trovi uno “dritto” neanche a pagare. Ed è lui stesso a scherzarci sopra nel presentare il brano “Thirteen” spiegando la costruzione su una ritmica 13/8 ed invitando il pubblico a non provare nemmeno a contare il beat, talmente difficile.

Il concerto inizia con una suite introduttiva molto dolce e lenta, pochissime note di piano, qualche tonica col contrabbasso, accenni ritmici sui piatti ed il quintetto da camera che ti fa capire che di li a poco dovrai mollare ogni tensione e lasciarti trasportare dalle emozioni; che non tardano ad arrivare. Già dal secondo brano Avishai inizia la sua danza con il contrabbasso: ritmi dispari che sorprendono e spiazzano in complicità con la batteria, sui quali le note si intrecciano in armonie che rimandano al Medio Oriente, alla musica tradizionale israeliana e a sonorità del bacino del Mediterraneo. Avishai non si contiene, non gli basta far letteralmente “cantare” il suo strumento, bellissimi tutti i suoi solo – nei quali il virtuosismo non è il fine ma il mezzo, esercizio, mantra di consapevolezza che non lascia spazio a ridondanza alcuna – ma utilizza la sua voce su molti brani, cantando in ladino (la lingua degli ebrei spagnoli), in ebraico e in spagnolo.

Lo show va avanti alternando composizioni che fondono la complessità e l’improvvisazione del jazz con armonie di chiara matrice “world”, passando attraverso “groove” funk, musica classica e ballate nelle quali rarefatti, struggenti accordi di piano ridonano pace al cuore (eccezionale la versione di “A child is Born” di Thad Jones).

Al piano un giovanissimo e sensazionale musicista: Nitai Hershkovitz, capace di suonare note quasi impercettibili dalle orecchie (ma non dai sensi) per lanciarsi poi in sfrenate e urlanti fughe soliste costruite su scale che non suonano mai scontate, sia nel timing che nelle armonie. Ad ogni modo, tutta la band è ad un livello altissimo, il quintetto come l’altrà meta della sezione ritmica, il poco piu’ che maggiorenne Ofri Nehemya, alla batteria. Il concerto si chiude con un primo bis, nel quale Avishai, solo sul palco, improvvisa, mescolando temi e melodie, lingue e armonie strizzando, per giunta, l’occhio alla tradizione napoletana.

Ancora un bis con tutta la band sul palco e l’ovazione finale con l’intera Sala Petrassi dell’Auditorium in piedi ad applaudire.

Un concerto che non dimentichi facilmente. (Michele Mancaniello per RootsIsland)

 

la foto è di Andrea Boccalini, cortesia del “Roma Jazz Festival”