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Damon Albarn@Luglio Suona Bene, Auditorium Parco della Musica, 15.07.2014

Stavo per scrivere la recensione appena rientrato a casa ieri, poco prima della mezzanotte. Ho riascoltato velocemente la scaletta ma poi mi son detto che sarebbe stato meglio dormirci su, lasciare alle vibrazioni il tempo di estinguersi e ritornare cosi ad uno stato di “saggia” quiete dal quale poi iniziare a scrivere. Attesa. Indispensabile, come lo è quella di chi lascia decantare un buon  rosso o, paziente, attende che il dolce appena sfornato si raffreddi quel tanto necessario a far si che tutti i sapori possano “rivelarsi” al palato nel più gustoso dei modi. Era la prima volta che vedevo Damon Albarn dal vivo. Lo spettacolo, in una Cavea quasi piena, inizia puntuale con Albarn che sale sul palco, percuotendo un tamburello, e i musicisti alle sue spalle che veloci conquistano i rispettivi “ferri del mestiere” ed iniziano a suonare. Quello che subito mi colpisce è il “fare” assolutamente da anti-divo dell’artista anglosassone; sia nei modi, nella gestualità e nelle movenze a tratti “goffe”, anomale per uno che suona in giro per il mondo da un quarto di secolo, che nel look, decisamente “normale”: sneakers ai piedi, jeans, pantaloni e giacca, e t-shirt; insomma l’abbigliamento che ti aspetteresti da uno che ti precede nella fila ad un qualsiasi ufficio postale di periferia.

Ma veniamo alla musica. Si inizia subito con due singoli estratti dal nuovo lavoro solista “Everyday Robots” ossia “Lonely Press Play” ed il brano che porta lo stesso titolo dell’album. I suoni sono quelli giusti, morbidi e suadenti, e la band entra subito nello show: particolare la scelta di suonare con due chitarristi (di cui, quello ufficiale, che simula il basso con un pedale) mentre Albarn canta e stringe le mani ad un pubblico che proprio non ce la fa a restar seduto e si è accalcato sotto al palco. Con “Tomorrow Comes Today”, brano dei Gorillaz, l’energia esplode: la sezione ritmica comincia ad incalzare, con un basso vero adesso, e a muoversi su ritmiche che vanno dal reggae al punk. I musicisti tutti (eccezion fatta per il tastierista, impeccabile e compito durante tutto il concerto) saltano, ballano e si agitano, in particolare lo smilzo bassista di colore, cosa che lo rende grottescamente simile ai personaggi “cartoon” dei video dei Gorillaz, mentre Albarn si diverte con la diamonica. “Slow Life” quindi “Kids with Guns” ancora dei Gorillaz, con le quali l’”animo” punk di Albarn, è più che mai libero. “Three Changes”, dal progetto “The Good, the Bad and the Queen“, con, tra gli altri, Paul Simonon (bassista dei Clash, guarda caso il gruppo che ha scritto la storia del punk-rock) e Tony Allen (fenomenale e storico batterista di Fela Kuti), con la quale ci donano un dolcissimo finale dub.  La versatilità è caratteristica evidente in Albarn, nel suo attraversare i generi e nel suo passare da uno strumento all’altro con la leggerezza di un bambino: imbraccia la chitarra e ci suona magnificamente “Hostiles”, tratta dall’ultimo lavoro. Quindi passa al piano per “Photographs” e continua a battere sui tasti pesati per “Kingdom of Doom” (ancora dal progetto con Simonon ed Allen) e poi ritornare alla acustica per “You and Me”. A questo punto poteva privarci di qualcosa estratta da “Rocket Juice and The Moon” (progetto discografico del 2011, con Flea e Tony Allen)? Ovviamente no e per suonarci “Dam(n)” chiama sul palco un coro, composto da 6 eccezionali performers, ed il rapper “M.Anifest” con i quali in pochi minuti condensa in un unico brano, afro-beat, rock ed hip-hop. “Hollow Ponds”, quindi “El Manana” dei Gorillaz, davvero bella, ritmiche e melodie efficacissime. E certo che no, non potevano mancare i Blur, che Albarn omaggia sedendosi al piano e intonando, per il pubblico in delirio, ”Out of time”. “All your life”, ancora dei Blur, si muove su tutti altri toni, tosta e dura fin dal primo attacco, per ammorbidirsi tra strofa e ritornello, e riesplodere con inaudita energia sul finale. E’ uno spettacolo: tutti a saltare, dal pubblico del parterre a quello sulle gradinate fino ai musicisti (in particolare il bassista ed il chitarrista) che tra un salto e l’altro non disdegnano di mettersi in posa per lasciarsi fotografare dai fans assiepati sotto al palco.

 

Breve pausa ed Albarn torna al piano per regalarci, sempre dal suo passato con i Blur, una splendida “End of a century”, al termine della quale un fan sale sul palco per stringerlo in un abbraccio caldo e sincero. E’ il momento di “Clint Eastwood”, la prima hit scritta con i Gorillaz che suona potente e dura quindi ancora sonorità afro, gospel, con “Mr. Tembo”, “Don’t get lost in heaven”, anch’essa dei Gorillaz, e per chiudere “Heavy seas of love”.

Damon Albarn dimostra di essere artista capace di trascinare il pubblico, coinvolgendolo nel suo spettacolo emotivamente e fisicamente (meravigliosa ed emozionante l’invasione di palco, di almeno un centinaio di fans, da lui stesso fomentata). La band che lo accompagna, senza dubbio impeccabile, nella tecnica e nella passione più che manifesta. Unico neo, ma forse sarò il solo a trovarlo, gli arrangiamenti – afferenti a progetti che spesso sono e suonano molto distanti tra loro, avrebbero avuto più giustizia con una ensamble sul palco di piu’ strumenti, percussioni, sezione fiati, archi, elettronica, etc (penso in particolare ad alcuni brani più tribali, afro, world, piuttosto che a quelli più elettronici che, riprodotti da soli quattro musicisti, risultavano a tratti un pò scarni). Ma forse è una precisa scelta, che svela, ne sono convinto, il vero cuore “punk” di Albarn.

Una bellissima serata, un grande spettacolo da parte di un artista onesto, genuino e creativo, che senza troppi fronzoli, riesce ancora a sperimentare e a contaminare, tentando sempre qualcosa di nuovo.

E, soprattutto – dote assai rara di questi tempi – ad essere semplicemente se stesso.

(Michele Mancaniello per RootsIsland)