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The National @ Luglio Suona Bene, Cavea Auditorium Parco della Musica, 23.07.14

Era dalla scorsa estate che avevo voglia di ascoltarli e vederli suonare dal vivo. Un anno fa si esibirono sempre nella Cavea dell’Auditorium, ma di quella data ne venni a conoscenza tardi, quando i biglietti erano già tutti esauriti. Sold-out nel 2013 e sold-out quest’anno senza che, in questo intervallo di tempo, sia, peraltro, uscito alcun nuovo lavoro. Segno evidente che la band newyorkese sta vivendo un buon momento, confermando il proprio seguito e raggiungendo nuove, entusiate, platee. Ma forse troppa gloria da alla testa. Nonostante il bagno di folla e le centinaia di fans in delirio, accalcati sotto al palco per riuscire almeno a sfiorare Matt “il divo” Berninger, il mio concerto de i The National è stato un mezzo-flop: credevo di essere ospite al “falò” più bello dell’estate e invece mi sono reso conto di avere solo un cerino in mano che, bruciato in un attimo, non ha lasciato traccia di se. Cenere. Scomparsa. Volata via. Come le emozioni che ieri sera, brano dopo brano, sentivo dissolversi nell’afa della Cavea.

Con questa premessa, son certo, molti di voi saranno in disaccordo ma preferisco scrivere in maniera schietta e sincera piuttosto che “di maniera” col solo scopo di ottenere consensi ed approvazione.

 

Il concerto inizia puntuale ma parte già “strano”. L’inizio è lento, lentissimo con sonorità folk e acustiche con, in sequenza, “Wasp nest”, “All dolled-up in straps”, tratte dall’ep Cherry Tree del 2004 e “90 mile water wall”, dal secondo album della band, Sad song for dirty lovers. A suonare, una nutrita formazione che comprende, basso, chitarra, piano e seconda chitarra, batteria quindi tromba e trombone, che si alternano alle tastiere/campionatori. Non si sente bene. Gli strumenti non emergono nelle loro individualità, il suono arriva “chiuso” su se stesso, confuso e saturo di frequenza basse, complice la scelta di Bryan Devendorf , il batterista, di utilizzare, per quasi tutto il concerto, il charleston quasi unicamente col pedale e mai con le bacchette, scelta che penalizza il groove e priva il sound di quelle frequenze alte necessarie a  far “squillare” e “brillare” maggiormente il suono nel suo insieme.

Arriva “Fireproof”, dall’ultimo lavoro, il bellissimo disco che è Trouble Will find me (2013), quindi “Hard to find”, ballata dolce e lenta, come è stato lo show fin qui. Finalmente con “Swallow the cap” i sette musici sembrano ridestarsi e l’atmosfera comincia a scaldarsi: ciò nonostate e, fatta salva la bellezza del brano, i suoni restano ovattati, confusi e i due fiati sembrano messi li a far “scena”, colpa sia di una evidente problematica acustica  sia di una scelta artistica che limita e mortifica due strumenti cosi ricchi di timbrica e attitudine “solista” qui ridotti a meri tappeti.  ”I should live in salt”, con il suo accompagnamento di chitarra acustica sbilenco, quindi “Mistaken for strangers”, da Boxer, considerato uno dei migliori album della band. “Bloodbuzz Ohio” del 2010, con una batteria serrata ed il cantanto melodico e profondo di Berninger che guida tutta la band. Lo show prosegue alternando brani del piu’ recente disco, da “Sea of Love”, “I need my girl”, “Graceless”, cantata, appunto, senza grazia da un Berninger oramai completamente ubriaco, a brani del loro passato quali “Squalor Victoria”, “All the wine”, tratto da Alligator, terzo album risalente al 2005, “England“, “Slow show” e “Fake Empire”; un passato, nel quale, i The National potevano effettivamente essere ascritti alla florida, talentuosa e genuina scena indie americana.

Una breve pausa quindi, al rientro dal backstage, i sette idoli di una platea composta per lo più da ragazzi con camice a quadri e da ragazze con pantaloni a fiori a vita altissima, ci omaggiano con “Ada”, una versione davvero punk di “Mr. November”, cantata? da Berninger completamente lesso e senza voce, quindi “Terrible love” ed un finale “senza corrente” con “Vanderlyle Crybaby Geeks”, suonato con le sole chitarre acustiche, i fiati non microfonati e la voce, stonatissima, di Berninger sostenuta, per fortuna, dal corale pubblico.

Il mio “editore” (ciao Rootz!), mi vuol bene. Perchè sa che scrivo in maniera oggettiva, imparziale ma sempre vera, sincera. Son certo non me ne vorrà per questa “stroncatura” decisa ad un show, di cui son certo, oggi ne parleranno e ne scriveranno con tutti altri toni rispetto ai miei.

Diceva M.L.King: “Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano.” E, certamente, non sono i The National le cose che contano. Ma la verità delle emozioni. E quella non può esser travisata. Ne tantomeno taciuta.

(Michele Mancaniello per RootsIsland)