Blog

“The golden Age” di Woodkid

La notorietà musicale di Woodkid si deve a tre soli pezzi. Tanto è servito all’artista francese per creare un hype considerevole. Finalmente, due anni dopo “Iron“, possiamo ascoltare il disco d’esordio e placare la nostra curiosità. Il primo ascolto di The Golden Age però trae in inganno: la prima impressione che si ha è, inevitabilmente, che le canzoni siano tutte uguali. Ma già dopo il secondo tentativo si scopre che questo è uno dei rari casi in cui si può affermare che ci si trovi di fronte ad un prodotto coerente nel suo stile, ma più vario di quanto sembri.

La title track ci introduce delicatamente nel mondo fantastico dell’artista, salvo poi, con i tamburi che contraddistinguono quasi tutti i suoi pezzi, farci correre a perdifiato come i protagonisti dei suoi video. Non possono mancare gli archi, di cui Yoann Lemoine fa un abuso veramente sproporzionato, spesso scadendo nel barocchismo. Questa sovrabbondanza incontrollata sfigura “Run Boy Run“, che finisce per essere fagocitata da un’orda di archi spietatamente disneyani, soffocando l’incredibile tensione creata nei primi minuti.  Difficile non farsi condizionare visivamente da un artista che è anche regista di ormai celebri video ed è così che si finisce per immaginare “The Great Escape” come una coloratissima corsa primaverile che omaggia, già che c’è, un cantato alla Fiona Apple, pur con le diversissime capacità canore dei due cantanti.

Il nostro beniamino francese gestisce benissimo anche le ballate, come l’elegiaca “The Shore” o una “Where I Live” che ci ricorda un Patrick Wolf di prima maniera o ancora una “Boat Song” in cui il paragone con Antony Hegarty è d’obbligo, ma è interessante come su piano e fiati vada ad insinuarsi una crepa sintetica enormemente oscura. I video per Lana Del Rey devono comunque averlo segnato, perché “I Love You” le deve molto, anche se Lemoine la infarcisce, fino a farla scoppiare, di archi, mentre la magniloquente e imponente “Stabat Mater” si staglia tra le altre canzoni, come una delle costruzioni architettoniche immaginate da Woodkid nei suoi video. Partendo dal presupposto che la coerenza del disco rende la scelta di un pezzo preferito o migliore un fattore del tutto personale, è innegabile che “Conquest of Spaces” ha tutte le carte in regola per diventar un singolo di successo al pari della celebre “Iron” e di “Run Boy Run”, grazie al suo ritornello immediato, il testo intenso e sopratutto una saggia calibrazione di quegli elementi caratteristici del suo sound. Ed infine sulla marcia di “The Other Side” si sviluppano archi e cori che con la giusta solennità ci guidano verso l’uscita del mondo fiabesco della prima opera di Woodkid.

“The Golden Age” è un prodotto erudito, curato sino all’inverosimile, coerente nel sottotesto che crea, aperto ad un dialogo con un ambiente in cui l’artista sembra volersi precisamente inserire, senza però mancare di guardare ad un possibile successo più ampio. Forse la prolungata produzione ha provocato quella sovrabbondanza talvolta strabordante che appesantisce alcuni pezzi, ma in ogni caso si tratta di un esordio sensazionale che soddisfa a pieno la smoderata attesa che l’ha preceduto. Hype giustificato, per una volta.